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da La vita e l'arte di Giovanni Meli di Giovanni Alfredo Cesareo

 

 

Uomo probo, diritto, amico della giustizia, ma timido, Giovanni Meli s’accorse a buon’ora d’esser nato in un tempo, nel quale chi, come lui, non aveva né titoli, né ricchezze, né faccia tosta, bisognava che si cercasse de’ protettori, se voleva accaparrarsi un posticino nel mondo. Ma in quel secolo di privilegi, di spagnolismo e di fumo, i protettori, i quali appartenevano sempre alla nobiltà e al clero, qualche volta alle pubbliche amministrazioni, volevano essere ossequiati, inchinati, adulati, magnificati: il cliente doveva farsi piccino piccino per non dar ombra, rassegnarsi a sopportare in silenzio i loro disgusti e i loro capricci, conciliarseli con la pazienza e col buon umore, rallegrarli e assecondarli. E questa fu, si può dire, la vigilia d’armi del nostro poeta, sottomesso a volta a volta a don Deodato Targiani, segretario del viceré, a padre Gioacchino Monroy de’ principi di Pandolfino, decano e poi abate nel convento benedettino di San Martino delle Scale, al principe di Campofranco, colonnello di cavalleria e poi maestro razionale nel Tribunale del Patrimonio, a Giuseppe Ventimiglia Principe di Belmonte. Con l’aiuto di costoro egli poté farsi una rinomanza di poeta, ottenere licenza d’esercitare la medicina, pubblicare le sue prime composizioni, andare in condotta a Cinisi, frequentare le dotte sale delle Accademie e gli eleganti salotti della nobiltà.

Ma l’istinto nativo della giustizia sollevava dentro di lui come un fermento di collera muta per tale disparità di fortuna; d’altra parte la prudenza della sua indole e la delicata sensualità incline agli agi e paurosa della miseria, gl’impedivano ogni aperta rivolta: di qui una scontentezza, un rodìo, un dissidio interiore del poeta, il quale trapela sovente in espressioni di motteggio, che non è sola facezia; in amare querele, come nel Polemuni, che non son punto accademia; ne’ vaneggiamenti sociali del suo don Chisciotte; nella trasparente ironia delle sue favole. Accanto al Meli noto, il Meli popolare, vezzoso e georgico, c’è un altro Meli ignoto o mal noto, il Meli inquieto, dolente, visionario e riformatore; accanto all’estremo figliuolo di Teocrito, c’è il primo discepolo del Rousseau e degli Enciclopedisti. Il Meli conchiude la poesia bucolica di Sicilia; ma previene, non ostante i suoi inni al re ed ai signori, la nuova poesia della rivoluzione in Italia.

Oltre a tutto codesto, il Meli anche sentiva confusamente, se pure non osava affermarlo a gran voce, d’appartenere a un’aristocrazia tanto al disopra della blasonata canaglia che si figurava di poterlo umiliare; a quell’aristocrazia veramente per diritto divino, ch’è il genio.