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da L'istoria triste di Didone ed Enea di Lorenzo Conti Lapi

 

dal  Canto primo

 

Così parlò la sorella di Giove,
e Dido sì come cerva ferita
raggiunta nella selva da più strali,
dovunque fugge e fuggendo delira.
Ai templi si rivolge e d’animali
brucia le viscere e tutte le indaga,
rompe il silenzio e grida per sé pace.
Ma ormai è la passione all’intelletto,
e un dio alato si agita in lei.
Tu pure, Padre Giove, alla sua vampa
bruciasti, tu che folgori dal cielo,
per lui distrutto fu il dio della Guerra,
e ad esso pur soggiacque chi mai spegne
sopra Catania le fornaci ardenti,
e dai suoi strali l’arciere prudente
fu condannato ad amare chi fugge
e a coglier di dolcezza un frutto amaro.
È dunque Amore un dio o un immorale
vizio che i sani in folli trasforma
e tutto vuole, lui così potente
da giunger l’impossibile a bramare?
Vizio per libertà è dunque Amore
santo desio che mutasi in passione
e senza il giusto mezzo, a male o bene
indifferentemente egli conduce.
Non più contro di sé ma contro a un dio
ora combatte la Regina ignara,
e il male fa che non vorrebbe fare.
Così è su di lei scesa la sorte.
E come se ne’ pleniluni il cielo
s’adombra e fioca luce è per le nubi,
ecco nel cuore suo farsi la notte,
nella Regina che tremante corre
al volto dell’eroe che male e bene
alla sua vita rende. Ed ora chiede
di riascoltare il racconto di Enea,
dalle sue labbra pendere e guardare
il suo bel volto, o Ascanio tenere
ancora tra le braccia figurando
in lui il profilo dell’amato padre
in lui il profilo già d’un figlio nuovo.
E questo vuole e null’altro vuole,
pazza d’amore, misera Didone!
 


 

dal  Canto secondo

 

Ed io che domani nuovamente
vorrò l’amaro mare risentire
schiumarmi sulla barba e sui capelli
io che dovrò lasciar chi dolcemente
e con passione m’ebbe tanto amato,
io che mai nulla rimprovero al cielo
ma il cielo d’ogni bene ne ringrazio
io che già mai godei dell’altrui strazio,
ma che straziato ho nel cammino il cuore
questo ti prego per quanto dolore
e sacrificio sia lo stare al mondo
non ti scordar del popolo futuro,
perché quando dovrà stringere i denti,
essere forti e forti per patire
con l’animo patisca e con il cuore
qual di colui che perse un grande amore.
E questo ai miei darà l’orgoglio e il canto,
il canto onde fiorisce la vittoria.
Per questo mai, mai gli abbandoni Amore.

 

dal  Canto terzo

 

Ed ecco che pietosa Anna accorse,
l’esanime sorella strinse al seno,
cercando d’asciugare con le vesti
i neri fiotti e scaldarla col fiato,
«questo, era dunque, il rito che dicesti»
le ripeteva riguardando vinta
dal suo destino la Regina bella
e d’una stessa morte la pregava;
quella tentò di levar gli occhi gravi
e al suono caro della voce d’Anna
per ben tre volte ricercò la luce
e pianse poi che l’ebbe riveduta.
Giunone vinta da grande dolore
per l’infelice nella lunga morte
venuta innanzi al tempo e provocata
da un grande amor che accese
[all’improvviso
Iride invoca dall’ali dorate,
e all’anima comanda comandata
di sciogliersi dal corpo e in quel momento
con la sua destra le recide il crine
mentre nel vento fugge la sua ombra.
E là tra una selva di mirti, in Ade,
là dove Amor per acerbo languore
irrora i campi del pianto, Enea
ancora la rivide in suo cammino,
mentre indagava dei Teucri il futuro
Roma sognando per i regni oscuri
poi che approdato alle spiagge di Cuma
giuso in Averno da quelle discese:
là il cuore gli gelò tanto gli parve
bella e soffrente in ugual maniera
molto la pianse e in dolce amor le disse:
«O mia Didone infelice, o Regina,
dunque la voce era vera che disse
dal ferro troncata tua vita il giorno
che lasciai la tua casa e mia la colpa!
Ma per le stelle del cielo infinito,
quanto ti dissi rinnovo, non fu
non fu mio voler lasciarti e partire,
né avrei voluto con tanto dolore
rendere grazie al tuo amor che fu grande,
e se adesso il fato mi concede
ancora riparlarti ferma un poco
il tuo vagare nell’ombra profonda,
e guardami ancora, guarda chi parla.»
Ma ella non guardò, l’ultima volta,
fu dura come roccia l’ombra afflitta
volta di spalle e con gli occhi a terra,
finché per quella selva ostil scomparve
sì come un quarto di luna fra i nembi
verso il suo primo marito Sicheo,
e là di lungi la seguì commosso
vedendola sparir da lui per sempre
tanto ingiusto destino Enea piangendo.