Arturo Graf, poeta egli stesso originale e
critico profondo, scrisse del Rapisardi «che infine è il solo che abbia
saputo accogliere in versi d’altissimo suono e di tempra incorruttibile il
grido dei nuovi tempi»; gran lode, ma che nessuno il quale abbia senso di
giustizia può negargli. Nessuno aveva sollevato più coraggiosamente del
Rapisardi fin dalla prima gioventù una bandiera di ribellione, e nessuno
l’ha difesa con maggiore intrepidezza e con maggior costanza; egli fu pure
poeta amoroso, e come tale, tradusse anche le liriche di Orazio e di
Catullo; ma sovra ogni cosa volle essere poeta giustiziere.
In Francia al Sully Prudhomme (1), per le serie di canti che intitolò «Justice»,
furono resi grandi onori, e finalmente conferito il gran premio Nobel; i
fieri canti rivoluzionari che il Rapisardi raccolse sotto il titolo
Giustizia passarono in Italia quasi inosservati.
Ma Gaetano Trezza, il forte critico veronese, li aveva bene scorti e
tratteggiati con parole vibranti. «La sua Giustizia», egli
scriveva, «non dubito dirlo, è una impossibilità storica; la società che
egli vagheggia e che affretta col desiderio, è un idillio ancor lontano;
le vergogne contro cui protesta son troppo vecchie e profonde per
divellerle d’un colpo dai nostri costumi; la redenzione delle plebi dee
tenere altra via di quella ch’egli s’immagina nell’ebra impetuosità
dell’anima offesa da tante miserie e da tante demenze. Filosoficamente non
potrei consentire coll’illustre poeta; la rivoluzione nulla crea di
efficace e di saldo. Eppure chi non dimenticherebbe le leggi della storia,
affascinato da queste liriche piene di vita?
L’originalità del Rapisardi qui si rivela meglio che negli altri suoi
canti.
È un grande ingegno d’artista che ritrovò la propria forma con lunghi ed
ostinati sforzi; la forma rapisardiana non rassomiglia a nessun’altra; è
lui, tutto lui, maturato in una più alta coscienza di sé stesso. Dalle sue
canzoni esce una voce profonda, triste, minacciosa, come di gente che
soffre ignorata e calpestata da tutti; è un mondo di Lazari che geme a piè
delle mense degli Epuloni; son grida spezzate che accusano cuori spezzati;
son lacrime che grondano solitarie e pregne di rabbia senza che alcuno le
raccolga; son fremiti acuti che s’aggiran per quella torba atmosfera di
schiavi oppressi da tutti i gioghi sociali, somiglianti al mugghio
titanico d’un Encelado che muti fianco di sotto la montagna che gli
dirompe la schiena».
(1) René François Armand
Prudhomme, detto Sully Prudhomme (1839-1907), poeta francese animato da un
estremo idealismo e da fiera avversione contro le ingiustizie sociali; fu
il primo vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1901.
|