«Ferdinando ha una certa grazia naturale;
monta benissimo a cavallo e benissimo tira: rideva molto quando io sparavo
a un cinghiale o a un fagiano. Poiché non aveva mai visto una donna
montare a cavallo all’inglese, in sella inglese e reggendosi sopra una
sola mano, quando vide il Margravio chinarsi, afferrare il mio piede e
sospingermi in sella, ove fui in un batter d’occhio, rimase di stucco.
Avevo in quel tempo una giumenta figlia di «King Herold»; seguivo ben da
vicino il Re, e tuttavia egli fu inquieto per me durante tutta la
cavalcata.
Tornammo a piedi dalla caccia, e quel ritorno mi parve caratteristico. Per
la via or un contadino afferrava il Re per la manica del soprabito, or un
altro per le code di esso, e un altro si gettava per terra e gli si
avvinghiava a una gamba: e tutti un poco gli esponevano le loro miserie
domestiche, la loro ristrettezza pel magro raccolto, l’ingiustizia di
qualche loro padrone. E il Re consolava l’uno, rimproverava l’altro, e ad
uno prometteva, e un altro lodava e, di volta in volta, s’impazientiva e
strepitava, mentre a tutti rispondeva e mentre tutti avevano l’aria di
parlare a un loro amico, pur invocando il suo regale potere. Il Margravio
rideva (1).
Quel d’Hatrava, nella cui casa eravamo alloggiati, non mancava mai al
pranzo del Re. La sua straordinaria ghiottoneria mi colpì. Ferdinando
giuocava con lui a tric-trac e per impedirgli di procurarsi delle
indigestioni: così, quando l’Hatrava vinceva il Re gli pagava quel ch’egli
aveva vinto — quando invece la fortuna arrideva al Re questi, per ogni
partita che l’Hatrava avesse perduta, gli sopprimeva un piatto a tavola.
Or accadde che una sera questo caro signor d’Hatrava perse un numero di
partite superiore a quello solito delle portate, una delle quali apparve a
un tratto in tavola, fuori menu, rappresentata da un magnifico
tacchino rimpinzato d’ottimi tartufi. E il disgraziato fu esemplarmente
punito, poi che nemmen di quello gli fu permesso di assaggiare un solo
boccone! Per quella sera il golosissimo signore non prese indigestioni di
sorta. E sì che aveva ragione di amare que’ pranzi succulenti: Ferdinando
s’era saputo provvedere del più esperto cuoco che io abbia mai conosciuto.
Il Re amava lo scherzo; e amava anche la musica: Paisiello, difatti, lo
accompagnava da per tutto (2). E ricordo che la vigilia di Natale del 1789
egli fece dare un concerto a cui, sole donne invitate, fummo
l’ambasciatrice di Francia ed io. Ricordo ancora che il Re accompagnò al
clavicembalo il Paisiello, ve lo fece sedere davanti e poi s’allontanò un
momento per andare egli stesso a cercare in una stanzetta ov’era riposta
tutta la sua preferita musica, un finale d’opera nel quale
ricorrevano le parole: “O bella ambasciatrice!,, (3).
(1) «Il existe entre le roi de
Naples et le margrave d’Anspach une correspondance intime et suivie sur
tout ce qui est relatif à la chasse. Chacun de ces princes tient un
registre exact dans lequel sont inscrits jour par jour, heure par heure,
les hauts faits qui les illustrent».
Mémoires secrets et critiques
des Cours, des gouvernements et des moeurs des principaux Etats
de l’Italie par Jean Gorani. — A Paris, chez Boisson, 1793, Vol. I, p.
193.
(2) Giovanni Paisiello — nato a
Taranto il 9 maggio del 1741 — era in quelli anni all’apice della sua
celebrità. Ora, tornato da Roma nel 1785 dopo l’insuccesso immeritato
d’una delle sue opere, non s’era più voluto allontanare da Napoli.
Ferdinando, nell’ottobre del 1787, lo avea nominato suo maestro di
camera e di cappella, al posto di Pasquale Cafaro, assegnandogli uno
stipendio di milledugento ducati l’anno. Era, agli anni in cui la Craven
si fermava a Caserta, il bel tempo della Nina pazza per amore,
della Molinara, dell’Inganno felice, opere tra le più
inspirate del grande compositore, che a soli trentasei anni ne aveva già
composto cinquantuno.
(3) La giovane e bella baronessa de Talleyrand, moglie del Maresciallo di
Campo barone Luigi Maria Anna de Talleyrand-Périgord, nominato
ambasciatore di Francia a Napoli nel 1788, morto a Parigi nel 1799.
Di lei e dell’ambasciatore parla sovente, nel suo Journal d’émigration,
il conte Guglielmo Tommaso d’Espinchal che in Napoli passò i mesi di
gennaio e di febbraio del 1790 e conobbe, in casa della principessa di
Belmonte, il margravio d’Anspach e la Craven. Il barone di Talleyrand avea
due palchi al San Carlo, comunicanti così da costituirne un solo
ove l’ambasciatore e la moglie ricevevano specie i signori francesi. Alle
cacce di Ferdinando lo stesso ambasciatore condusse una volta il d’Espinchal.
Questi prese pur nota, come avea fatto la Craven, dell’abito che aveva il
Re di serbare nella maniera descritta dalla Craven i trofei di caccia. —
V. Journal d’émigration du comte d’Espinchal, publié d’après les
manuscripts originaux par Ernest d’Hauterive — Paris, Perrin, 1912.
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